Chiesa con vincoli Sovraintendenza belle Arti
Chiesa dei Santi Francesco e Bernardino in Cavaglià (Biella)
Arch. Walter Mazzella, dello Studio Libidarch Architetti Associati -Torino www.libidarch.it
Progetto di restauro degli apparati decorativi ed esecuzione degli interventi di preconsolidamento degli affreschi: Dott.ssa Laura Degani (Restauratrice e Specialista in Scienza e Tecnologia per la Diagnostica e la Conservazione dei Beni Culturali)), con Studio in Santhià (Vc), laura.degani@tiscali.it
Nell’ambito del Progetto di Restauro Conservativo della Chiesa dei Santi Francesco e Bernardino, sono stati affidati alla Ditta EDIL MA.P.UNO, Piero Mapelli, di Momo (NO), i lavori di risanamento e di isolamento del piede delle murature d’ambito ed interne, indispensabili a garantire, per gli anni a venire, la salvaguardia degli affreschi, dei fregi e delle cornici a stucco, degli intonaci storici e di tutti gli apparati decorativi presenti in questo complesso architettonico.
ENTI DI TUTELA
– Soprintendenza per i Beni Architettonici ed Ambientali del Piemonte;
– Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici del Piemonte.
La Ditta EDIL MA.P.UNO, specializzata nel delicato settore del risanamento conservativo degli edifici storici e forte della propria ultratrentennale esperienza (35 anni di consolidata professionalità al servizio di enti pubblici e privati), ha eseguito i lavori di deumidificazione delle murature, contrastando con successo i danni derivati dall’elevato tasso di umidità presente alla base delle murature e nelle murature stesse, mediante un trattamento specifico contro la risalita capillare, impiegando speciali resine a “lenta reticolazione” (per “lenta reticolazione” si intende una reticolazione chimica all’interno dei pori vasocumunicanti della muratura che avviene in un tempo medio di 6-12 mesi) e con caratteristiche di grande resistenza all’aggressione dei sali che si cristallizzano all’interno dei muri e agli agenti atmoferici in genere.
Con questo speciale trattamento viene scongiurato il rilascio del carico salino nell’immediato per la salvaguardia degli affreschi.
I dipinti
Tra le opere più importanti, eseguite nel sec. XVIII nella chiesa della confraternita, vanno posti quattro grandi dipinti murali, ora in parte rovinati dall’umidità, rappresentanti altrettanti episodi della vita di San Francesco d’Assisi.
Il nostro particolare processo “non distruttivo”, è stato attuato allo scopo di scongiurare, una volta eseguito il trattamento di iniezione della resina, l’espansione violenta conseguente alla cristallizzazione dei sali solubili contenuti nei muri impregnati dall’umidità, consentendo così la salvaguardia degli affreschi, di notevole valore storico, artistico e documentale, permettendo altresì ai restauratori di procedere, in tutta sicurezza, mediante l’utilizzo dei tradizionali sistemi di estrazione dei sali solubili ancora presenti all’interno degli intonaci di supporto agli affreschi stessi.
Altare maggiore, risalente al ‘700, decorato con intarsi di marmi pregiati.
L’altare maggiore della chiesa, poggiato, come di consueto, su una fondazione di mattoni pieni legati con malta di calce idraulica, soffriva anch’esso delle stesse patologie che affliggevano le murature d’ambito a causa dell’elevata permeabilità del cotto e delle malte di allettamento.
Considerato che la risalità capillare dell’acqua e, con essa, dei sali disciolti nella stessa, è la causa principale del degrado sia per le murature che per i marmi che su queste vengono posati, nel caso di questo altare, dopo aver rimosso con cautela le piastrelle in pietra di Barge del pavimento, si è potuto creare, nella muratura di fondazione dell’altare, senza alcun intervento invasivo, con iniezioni continue di una miscela di resina, una barriera chimica orizzontale che, impregnando i mattoni e la malta dei giunti di allettamento, per le sue specifiche caratteristiche, oltre a bloccare la risalita capillare dell’umidità, è anche in grado di riconsolidare le parti più porose e friabili dei mattoni, portandoli ad una maggiore resistenza e ad una più lunga aspettativa di vita.
Trattamento esterno
Il trattamento per il risanamento delle murature d’ambito, in forte spessore e realizzate con mattoni pieni e scapoli di pietra locale allettati con malta di calce piuttosto povera di legante e spesso molto disgregata, per garantirne l’efficacia, è stato realizzato con una doppia perforazione (dall’esterno e dall’interno, a quinconce), di particolare difficoltà e cautela in quanto, si è dovuto tenere in primaria considerazione, con controlli continui da parte degli operatori, che sul paramento interno dei supporti murari da trattare erano presenti gli affreschi da conservare e le cornici a stucco che, proprio perché più prossimi alla fondazione, presentavano un più marcato grado di ammaloramento e di disgregazione.
Panoramica interventi interni:
Cenni Storici
Le più complete descrizioni della chiesa sono contenute nelle Visite Pastorali del sec. XVII, che la presentano nelle sue due parti di oratorio per i confratelli, dietro l’altare, e di oratorio pubblico.
Ma già da alcuni decreti della Visita Pastorale del 1574 si desume che, almeno all’origine, doveva essere una costruzione di modeste proporzioni e molto povera, in quanto si ordinava: « Si proveda di tre Corporali, con la borsa di seta, quindeci purificatori, et d’Altre cose necessarie per ornar l’Altare secondo la forma degli decreti conciliari; et alle finestre dell’oratorio si mettano le jmpanate in forma fra un mese. Si levi il vaso qual è fuori della chiesa et mettasi a man destra nell’intrar della porta quanto prima» – «Non si dica ivi messa se prima non haverano serrata la finestra in maniera che non si possa veder messa per di fuori…».
Nella Visita Pastorale del 1606, che rappresenta un documento assai prezioso, perchè è l’unico giunto a noi che conservi una descrizione completa della chiesa preesistente all’attuale, sta scritto: «Visitavit oratorium Disciplinatorum SS. Francisci et Bernardini loci pr.cti… Altare est congruum sed caret tela viridi, cruce et cartula secretorum, lapis sacratus caret tela cerata, deest fenestra urceolorum et Bradella est brevis. Cura soc.tis celebrat R. Piebanus in hoc oratorio semel in hebdomada percipiens septem aureos annuos. Fenestre habent specularia e carta… Jmagines ligneae juxta altare oratorij interiori posite sunt pre antiquitate indecen. ideo sepelliende».
Nonostante le manchevolezze denunciate a seguito della Visita Pastorale appena sopra citata, la confraternita di Cavaglià fu sempre fiorentissima e numerosissima e ben presto si sentì la necessità di una chiesa più ampia per le ufficiature corali.
I lavori, che rinnovarono l’edificio dalle fondamenta, iniziarono nel 1664; in un ordinato di tale anno, si legge che «….dovendosi dare principio alla fabrica della chiesa… s’è provisto già la calcina e boscami che saranno necessari, conviene anche provedere la sabia et asse acciò quando li Mastri havranno datto principio il Travaglio non resti imperfetto et li mastri habbino puoi da prettendere li danni che ne puotrebber pattire quando non li fossero soministrate le cose necessarie…». E si stabiliva che lo scavo della sabbia e il suo trasporto, come anche quello dei mattoni, fosse compiuto gratuitamente dai confratelli, sotto pena di venti soldi di multa e, se renitenti, di essere espulsi dalla confraternita.
A questo scopo, fin dal 1657, si era impiantata una fornace e nel 1663 si era trattato con il mastro Paolo Ferroglio per affidargli l’esecuzione dei lavori.
Il Ferroglio accettò l’impresa e la compì con l’aiuto del mastro Pietro Negro, come risulta dai numerosi pagamenti effettuati in questi anni.
Nel 1667 i muri, la volta ed il tetto erano ormai ultimati e nello stesso anno si facevano costruire la porta, dal mastro Alberto d’Antonio, il muro divisorio tra l’oratorio e la chiesa pubblica, a cui era addossato l’altare (con una apertura attraverso la quale, secondo l’uso delle confraternite, i confratelli dal coro potevano vedere l’elevazione durante la Messa), le colonne e il cornicione all’altezza del presbitero, ancor oggi esistenti, e l’icona centrale, rappresentante la Madonna in trono con il Bambino e i SS. Francesco e Bernardino (fatta dipingere a Vercelli da pittore sconosciuto, di composizione classica, ancora cinquecentesca, attualmente appesa ad una parete laterale del coro).
Sempre nel 1667, la nuova chiesa era già aperta al culto,poichè tra le spese di tale anno figurano anche quindici centesimi dati «per la permissione ottenuta da Monsig.re per benedire l’altare».
Durante la Visita Pastorale del 1665 l’ «oratorium Disciplinatorum»era stato trovato «noviter extructum et omnibus adhuc nudum» e si decretava: «Si prohibisce in quest’oratorio la celebratione della S.a Messa solita dirsi nel Choro interiore sinchè non si sia accomodato et ornato l’Altare al davanti sotto pena a Confratelli dell’interdetto dell’oratorio et a Sacerdoti celebranti della
sosp.e et intanto si gle provegghino anche le cose necessarie e si perfettioni la fabrica…».
Intanto, un gruppo di «lignamari », probabilmente della cerchia di BarjelIa sacrestia tolomeo Termine, nel 1659 aveva eseguito il mirabile credenzone di noce per i paramenti, a pannelli scolpiti, con angeli e cascate di frutta simiIe a qùelli della sacrestia della chiesa parrocchiale.
Da un altro mastro, rimasto ignoto, fu scolpito, nel 1678, un ulteriore credenzone da identificarsi, forse, con l’armadio attualmente addossato all’altare, dalla parte del coro.
Ancora, nel 1659, Io scultore Cavagnetto di Viverone aveva eseguito due bastoni per i priori mentre il pittore Giovanni Zerbino di Andorno aveva dipinto il gonfalone della confraternita.
Nell’adunanza del 1 novembre 1672 si proponeva «esser bene di far fare le sedie o siano banchi per l’oratorio…». Dalla scarsa qualità del lavoro compiuto si deve dedurre che furono eseguite da un qualche umile falegname del luogo. Nel 1779 si faceva notare, infatti, che «le sedie di quest’oratorio (erano) bisognose di ristaurazioni per essere le medesime marcite ne marciapiedli e guaste in più luoghi e li parapetti cogl’inginocchiatoj slogati e pericolosi di caduta a causa del marcio ne piedi loro» e si stabiliva di farle restaurare.
Con gli stalli del coro, si sentì pure necessità di costruire un tabernacolo», ossia una grande ancona, per l’altare maggiore. Per effettuare quest’opera, nel 1674, si rimandava la costruzione, già in programma, del campanile, come si legge nell’ordinato del. 20 aprile «. . essendosi già più volte proposto di far un incona o sij tabernacolo per ornamento di questa nostra Chiesa… Quanto al campanile si diferisca sin tanto si sij fatta l’Jncona ordinando in tanto… sendosi quivi presentatti due dissegt-i… che (il priore) andando a Torino li faci veder da un Jngigniero acciò visto i’ornamento d’essi, dichi qual sij più a proposito…». Il lavoro fu affidato al sommo scu1tore biellese Bartolomeo Termine il quale dovette eseguirlo subito, anche se i pagamenti, a causa di inadempienze contrattuali dell’artista, furono differiti di diversi anni. Però nel 1675 si trova già notizia della spesa per «l’’indoradore m. Gio. Maria Ferraris qual ha indorato I’Jncona della Chiesa».
Questa ancona (che doveva portare al centro il quadro rappresentante l’Immacolata con i SS. Francesco, Bernardino, Carlo e Filippo Neri, fatto dipingere nel 1674 a Torino da pittore sconosciuto e ora, con parte della cornice, collocato al centro del coro) fu demolita nel secolo seguente e nel 1793 nella chiesa era rimasta solo « la boscamenta dell’ancona vecchia dell’altare» e in seguito scomparve del tutto. Si noti però che l’ancona del Termine era stata ampliata, nel 1696, con la costruzione di due «prospettive di scultura che adornino la detta incona».
«Per tal fatto (si era) già fatto far un disseno da m.ro Giuseppe Argentero d’Andorno» e nella seduta del 20 maggio si era dato incarico al priore di rintracciare detto scultore per contrattarne l’esecuzione.
Quasi sicuramente le trattative con l’Argentero non dovettero approdare a conclusioii pratiche e l’opera dovette essere affidata allo scultore Giovanni Battista Serpentiere di Sagliano in favore del quale, nel 1696, si pagava, in due volte, la non indifferente somma di L.110.
Si pensa che il lavoro del Serpentiere possa identificarsi con le due piccole ancone in legno, dipinto e dorato, conservate nel muro di fondo del coro, contenenti due dipinti assai mediocri raffiguranti S.Giuseppe e S. Giovanni Battista. Il Serpentiere, in precedenza, aveva già lavorato per la chiesa della confraternita e precisamente nel 1678, quando aveva provvisto la serratura e la chiave della porticina del tabernacolo e scolpito il cimiero del gonfalone (dipinto quest’ultimo dal pittore Carlo Antonio Serra di Tollegno) e i bastoni dei lanternoni (i lanternoni erano stati acquistati a Torino da Michele Cartagnei).
La torre campanaria
Assai curiose, poi, sono le vicende che accompagnarono la costruzione del campanile.
La necessità di costruirlo si era fatta sentire fin dal 1674 ma, come già annotato, si era dovuto dare la precedenza all’ancona dell’altare. In via provvisoria si era edificato un piccolo campanile su un muro della chiesa, formato, secondo Puso del tempo, da due piccoli pilastri., che sostenevano l’unica campana della confraternita, a proposito del quale già nel 1684 si faceva notare che minacciava rovina e bisognava «far costruer un campanile di pianta ove tante volte si è proposto». Inoltre, l’8 luglio 1685 il priore affermava che era necessario «reffonder la campana di questa Compagnia rotta il giorno di S. Bernardino… et anche far coastruer un campanile per reponerla sopra, perché ove si trova boggidì minacia ruina alla Chiesa».
Dopo varie discussioni, si passò all’esecuzione, ma il problema più grave riguardava la località in cui costruirlo. Il 5 maggio 1686 si stabiliva «di far chiamare Mastro Alessandro Catella per concertar con esso la spesa che vi vorrà per’ far il Campanile da esso proposto in triangolo sopra il cantone della chiesa nella facciata».
Ma, dopo nuove discussioni con il mastro, si mutò progetto, decidendo di costruire un vero campanile, a pianta quadrata, proporzionato alla chiesa, a fianco dell’edificio, vicino la porta del coro e a tal fine il 20 maggio si erano già persino scavate le fondamenta. I confratelli non erano però tutti d’accordo, tanto che, dopo animate dispute, prevalse la corrente di coloro, che volevano il campanile in linea con la facciata.
Si scavarono nuove fondamenta ma anche questa soluzione non accontentò quella parte di confratelli che, a causa delle forti spese a cui si andava incontro e per la mancanza di denaro sufficiente, voleva a tutti i costi che si costruisse soltanto un piccolo campanile a triangolo, sui muri della chiesa.
Per placare un poco gli animi, nella riunione del 4 giugno, si fecero intervenire il pievano e i canonici della collegiata, durante la quale prevalse l’idea che il campanile fosse costruito «di pianta», affidando l’impresa, sia per il disegno che per l’esecuzione, a due mastri tra i più esperti. Durante la Visita Pastorale del 1 luglio, Monsignor Ripa decretava che il campanile fosse costruito accanto al coro – «Inhibetur constructio campanilis in loco iam designato sed fjat prope chorum de consilio architecti. et in casum coattaventionis interdicitur oratoriurn et ubi fiat prope chorum m onentur Confratres ut unusquisque conferat operata suam in construtione eiusdem campanllis iuxta ordinationes Capituli eiusdem confraternitatis»-, ma la reazione dei confratelli costrinse il Vescovo a moderare la sua decisione tanto che accanto al citato suo decreto si trova l’annotazione «Ad preces confratrum fuit hoc decretum post visitationern moderatum».
Gli esperti scelti dalla confraternita furono i fratelli Alessandro e Francesco Masella che, il 16 giugno, esponevano in pubblica adunanza il loro parere; dopo di che sì decideva di costruire il campanile in linea con la facciata, verso mezzogiorno.
L’ 8 luglio il confratello Daniele Violetta, avendo offerto 18 lire, si aggiudicava all’incanto l’onore della posa della prima pietra che fu posta nello stesso giorno, con il malcontento dell’altra parte di confratelli che voleva il campanile vicino la porta del coro, perché potesse servire, nella base, da sacrestia, allora ancora mancante.
Costoro non si diedero per vinti; fecero sentire la loro voce persino presso la Curia di Vercelli e convinsero il Vescovo a emanare un decreto in loro favore, obbligando la confraternita, sotto pena d’interdetto, a sospendere i lavori e a costruire il campanile nella località di loro gradimento.
La confraternita, che aveva già impiegato nella costruzione una notevole somma di denaro, ricorse al Vescovo e, ottenuto l’annullamento del decreto, continuò i lavori nel posto dove erano stati iniziati, accanto alla facciata. Alla totale esecuzione attesero gli stessi mastri Masella, le pietre della cornice e i cantoni furono «picati»da Carl’Antonio Solaro e nel medesimo anno il campanile era portato a temine. A ricordo venne murata, ma ad una certa altezza, la seguente lapide con la scritta “Quam inchoavii necessitas – molem per! icit pietas – suae ergo benef icentiae – aeternum monzérnentum – benefici fratres posuere – die 8 julii anno 1686”.
La facciata della chiesa
Il 19 novembre 1702 si decideva di dare un aspetto definitivo anche alla facciata della chiesa, ordinando «di far bianchire et abelire la facciata della Chiesa e cossì convenuto con m.ro Steffano Ceri Cappo Mastro lugano nel patto di lire cento quindeci incluso il vino nel qual stabilimento et abbelimento e Protrato (=ritratto) de SS.ti Francesco e Bernardino nel Cimero s’è speso in tutto livre ducento sessanta incluso la calcina, gesso et altri materiali necessari per tal fattura». Questa spesa fu in parte pagata col frutto di una colletta con cui si erano raccolte L. 61, 17 e la facciata fu completata nel 1704 con la costruzione della porta, a pannelli scolpiti, ornati al centro di borchie in ferro battuto, lavoro del mastro locale Giuseppe Nerva.
La ghiacciaia
Nel 1713 si diede inizio anche alla costruzione di una «giacera», di una ghiacciaia, un cantinato per raccogliere la neve che, pressata e trasformata in ghiaccio,.era yenduta durante l’estate ai privati che ne facevano richiesta. Si legge, nell’ordinato del 25 novembre 1714, “essersi nello scorso 1713 datto principio all’eretione d’una giaciera sovra il sito proprio di questa Confraternita che presentemente è ancora imperfetta e perciò doversi quella terminare”.
Fu però portata a termine solo nel 1720, quando si fece capitolazione con il mastro Giuseppe Garzone per la costruzione della volta; la ghiacciaia rimase in attività fino ai primi decenni del 1900.
La sacrestia
Nel 1734 si edificò la sacrestia. Era intenzione della confraternita far dipingere sei grandi quadri per ornare le sei arcate della chiesa pubblica. Fin dal 1731, constatando che in cassa vi era un fondo di circa cento lire, si era pensato di «far fare uno delli sei quadri grandi per guarnitura della presente Chiesa» e si era dato incarico al can. Boverio.
Costui aveva trattato a Torino con il pittore Michele Antonio Miloco il quale, nel 1733, si impegnava di eseguirne due per il prezzo di L. 250. Ma, poiché la confraternita nel frattempo aveva aumentato le dimensioni dei quadri, il Miloco pretese un aumento di L. 50.
La confraternita rifiutò di pagare la differenza e, dato che anche il pittore non fu dell’avviso di cambiare opinione, si decise di utilizzare lo stanziamento già fatto per i quadri, per la costruzione della sacrestia «di cui questa Confraternita ne tiene bisogno…, in attinenza di questa Chiesa et dalla parte verso Mezzogiorno, principiando dal cantone del Campanile e prottendere sino alla Lesena esteriore in vicinanza dell’uscio che dà l’accesso al presente oratorio per la larghezza d’un trabucco dalle lesene verso mezzo giorno oltre alla muraglia che dovrà esser nelle fondamenta d’oncie 18 o 20».
Il 14 marzo 1734 si stipulava il contratto con il mastro Francesco Garzone, che si impegnava a costruirla per L. 150, esclusi i materiali. I lavori furono però eseguiti solo nel 1736-37. Le due porte furono scolpite dal mastro Macchieraldo mentre, nello stesso tempo, il mastro Giuseppe Nerva scolpiva l’elegante porta esterna del coro e un armadio per riporvi i contraltari.
Un ignoto scultore eseguiva otto pannelli, un Crocifisso, due statue e un trono per l’esposizione mentre un altrettanto sconosciuto pittore dipingeva un quadro della Madonna «della portione».
E’ probabile che gli otto pannelli siano stati utilizzati per adornare un credenzone che il mastro Giuseppe Nerva aveva scolpito fin dal 1733.
La sacrestia non fu però costruita secondo il progetto originario, ma in posizione alquanto staccata dal campanile, all’altezza del presbiterio.
Tra l’una e l’altro, in seguito, si eresse un ulteriore locale che nel 1758 fu trasformato in cappella laterale.
Contro il muro di questo locale, ma dalla parte della chiesa, fin dal 1739 era stato eretto un altare, contenente, nella mensa, una cassa con una statua in legno rappresentante il Cristo deposto dalla Croce e quattro angeli scolpiti dallo scultore Paolino Rampone d’Ivrea.
La cappella
Nel 1738 il can. Carlo Giovanni Boschetto volle, «per promuovere la divozione verso la Vergine Addolorata, far eriggere un altare sotto tal titolo e, quantonque già avesse destinato di farlo eriggere nella Chiesa di S. Rocco, pure aver piuttosto pensato, quando questa Confraternita ciò aggradisca, di eriggerlo quivi, per meglio ottenere il suo fine sudetto, dacché questa Chiesa sta ogni giorno aperta e la sud.a sta quasi di continuo chiusa; onde posta tal sua intenzione ed aggradimeiito che creder le giova siasi per prestare da q.to Conseglio per l’errezione in q.ta Chiesa di d.° Altare, desidera detto Sig. Can.co che se le conceda di eriggerlo nella Capella nuova ancor rustica da alcuni anni fa costrutta a latere sinistro entrando in d.a presente Chiesa, attigua al Campanile, offerendosi di far fare l’apertura della muraglia d’essa Chiesa per la formazione di d.a Capella e di farle fare la sua volta, rizzarla e stabillirla ed ornarla integralmente ed il tutto insomma compiere a dovere e con decoro a totali sue spese, ed inoltre munire per la prima volta d.a Capella ed Altare di tutti li mobili, lingerie e paramenta necessarie; e per quel che riguarda alla manutenzione delle paramenta e ligierie in avvenire, volerli cedere a d.a Confraternita un Capitale di lire ducento cinquanta di già impiegato, e producente l’annuo reddito di lire dodici soldi dieci; et tutto questo s’offerisce d.° Sig. Can.co Boschetto di far ed eseguire mediante che le sia dato il juspadronato, si a lui, che ai di lui SS.ri eredi in perpetuo, tanto di d.a Capella, che del Beneffizio che intende fondare sotto l’Invocazione di d.a V.e Addolorata della medesjma..».
Si accettava, ma a patto «che sia riservata la facoltà a d.a Confraternita (senza nulla togliere del Padronato, che si concede di d.a Capella al sud. S. Can.co e suoi ill.mi eredi) di applicare in essa le Umigliate Consorelle di q.ta Confraternita, come tale già fu l’idea della costruzione di detta Capella».
La cappella fu costruita e nelle mensa dell’altare fu incorporata l’urna ricordata del Cristo deposto del 1739, i gradini per i candelieri e il tabernacolo negli anni seguenti furono sostituiti da altri in marmo nero, a intarsi colorati, provenienti con tutta probabilità dalla chiesa parrocchiale antica, demolita verso la fine del secolo, e quasi sicuramente dall’altare del Suffragio, scolpito dal marmorino Longhi nel 1728. Per icone il canonico fece dipingere (l’opera denota la mano del Miloco) un quadro su tela rappresentante la Deposizione dalla Croce, facendo aggiungere, in un angolo, lo stemma del suo casato.
Nel 1771 cedette alla confraternita «le paramenta e mobili da lui già provisti per l’altare dell’addolorata da lui fatto errigere… e rinunciava ad ogni ragione prettesa di Jus Patronato per d.ti Altare e Capella a condizione però che non solamente sia a perpetuo carico della Confraternita di dti Capello ed altare in tutto ciò che sarà necessario, ma altresì che debba la Confraternita fare cantare la messa nel giorno della festa di Maria SS.ma Adolorata al d.° Altare, come pure che debba continuar a stare l’arma Gentilizia di Sua Famiglia esistente sul quadro di d.° Altare sino a che vi sarà tal quadro, e dovendosi quello cambiare per non esser più buono possino li suoi successori tall’arma rimettere sul novo quadro che dovrà farsi…».
La cappella passò, in tal modo, alla confraternita che già nello stesso anno faceva sistemare l’altare dal pittore «archititore Giovanni Battista Zantogno»e nel 1822 faceva restaurare l’intero edificio e aggiungere un cupolino ellittico dal mastro Bianco.
I dipinti murari
Tra le opere più importanti, eseguite nel sec. XVIII nella chiesa della confraternita, vanno posti quattro grandi dipinti murali, ora in parte rovinati dall’umidità, rappresentanti altrettanti fatti della vita di S. Francesco d’Assisi.
Sfumata, nel 1731, l’idea di far dipingere dal Miloco sei grandi tele per ornare le arcate della navata, l’iniziativa fu ripresa, alcuni anni più tardi, ed attuata da alcuni «confratelli pij, che a luoro spese ( fecero) fare de quadri sovra le muraglie laterali della Chiesa», mossi anche dall’ambizione di « metter il loro nome e arma sovra d’esse pitture».
I dipinti, di notevoli dimensioni, sono quattro ma, essendo stati donati, non è possibile ricavare il nome del loro autore dai registri della confraternita. Essi rappresentano l’estasi di S. Francesco, la sua rinunzia ai beni, il Santo che appare ad alcuni confratelli su un carro di fuoco e l’approvazione della regola francescana da parte di Innocenzo III.
Stemmi e nomi di donatori non se ne vedono. Soltanto su uno svolazzo nella cornice inferiore di quello raffigurante la rinunzia ai beni, si trova la scritta: «Joseph Maria… (illeggibile) ex loco Salazza – Joseph Tonsus V.P.D.D.D. -1737».
Allo stesso ignoto pittore si devono pure i due piccoli dipinti che si trovano nella sacrestia e rappresentanti il Cristo che appare alla Maddalena e il Crocifisso con la scritta «Amor meus crucifixus est». Si pensa che il loro pittore debba essere ricercato nella schiera dei numerosi artisti attivi in questo tempo nella capitale piemontese se non, ancora una volta, nello stesso Miloco.
Seguendo l’usanza delle confraternite, anche la confraternita di San Francesco volle ornare nelle solennità le pareti della sua chiesa con una ricca tappezzeria ora non più esistente anche se di questa è rimasta traccia nell miriade di chiodi che ne sostenevano la struttura e che ancor oggi sono infissi in tutta la parte mediana della parete nord, tutt’attorno al vano di accesso della cappella laterale.
Nell’ordinato del 9 settembre 1725 si deliberava di far acquisto di alcuni pezzi «di brocadello cremisino fino et il brocadello verde a fiori d’oro». Dal libro dei conti del 1727 risulta che questa stoffa, pagata L. 422,10, fu acquistata dai mercanti Tinivella e Durando e confezionata dal tappezziere Matheis.
Le tele settecentesche e l’organo
Il ‘700 fu anche il secolo delle grandi devozioni, tra cui in modo speciale quella della Via Crucis. Nel 1731 la confraternita decideva di far dipingere una propria Via Crucis e ne affidava l’esecuzione al pittore Marco De Brotis che, a Cavaglià, aveva già eseguito altri vari lavori nella chiesa parrocchiale.
Ne conseguì un lavoro di scarsissimo valore, anche se a questo stesso artista fu affidata, poco dopo, l’esecuzione di un quadro di S. Pasquale Baylon, la cui devozione era sorta nella chiesa della confraternita nel 1743, in seguito alla donazione di una reliquia del Santo da parte del P. Michel Angelo da Vettignè dei Minori Osservanti.
Nel 1753, dopo l’aggregazione all’arciconfraterta delle Stimmate, si ottenne da Roma anche una reliquia di San Francesco.
Giunta a Torino, il 3 giugno si ordinava di mandarla a prendere e farle confezionare un reliquiario, «coll’occasione che molti di questo luogo si portano alla città di Trino per andar solenizar la Festa del Miracolo del SS.mo Sacramento».
La confraternita curò sempre in modo esemplare quanto serviva al culto divino e sovente si trovano annotazioni relative a spese effettuate per paramenti e arredi sacri; addirittura, nel 1759, si lamentava il furto del calice feriale.
Per ordinato del 2 settembre 1761, si stabilì di dotare la chiesa di un organo e se ne affidò la costruzione all’organaro don Giueppe Maria Ragozzo della Colma di Valduggia (Valsesia).
Nella capitolazione siimponeva che tale strumento doveva essere «di piedi quatro con numero nove Registri e Otto contro Bassi»; il tutto per il prezzo di L. 300 di Piemonte e che fosse messo in opera per la Pasqua dell’anno seguente.
Per collocarlo si costruì la cantoria sopra la porta di ingresso, eseguita dal mastro Macchieraldo e poi ampliata, nel 1767, per sistemare dei mantici più voluminosi, al fine di render l’organo più potente e il suono più continuo.
L’orchestra fu decorata nel 1773 dal pittore Gio Batta Zantogno.
Quello strumento accompagnò il canto sacro fino al 1840 quando fu sostituito dall’organo attuale costruito dall’organaro Felice Silvera di Arona.
Nel 1764 fu fatto confezionare un nuovo gonfalone che fu poi dipinto dal pittore Paolino Zanone.
Nel 1767 venne scolpito un grande crocifisso e, nel 1769, diciotto candelieri, cartegloria e croce, tutti dorati e ancora in parte esistenti.
Un altro crocifisso per l’altare fu acquistato nel 1795, ma di tutti questi lavori si ignorano gli autori.
L’altare maggiore e le balaustrate
Tra le opere di maggior pregio, conservate nella chiesa della confraternita di San Francesco vanno annoverati l’altare maggiore, a intarsi marmorei di diversi colori su fondo nero e la balaustra pure di marmo, completata con grate di ferro battuto.
Sia l’altare che la balaustrata erano stati scolpiti per la chiesa parrocchiale e furono trasportati nella confraternita nel 1798.
L’altare è opera di un gruppo di “marmorini”, capeggiati da un certo Longhi, che lo eseguì nel 1728. A questi stessi marmorini, nello stesso anno, fu affidata anche l’esecuzione dell’altare e dell’ancona marmorea della compagnia del Suffragio, sempre per la parrocchiale di Cavaglià.
Nel 1798, essendosi «per parte degli Amministratori delle Compagnie erette nella presente Parrocchiale… determinato di far eriggere l’Altare Maggiore (l’attuale) d’essa Chiesa Parrocchiale colla remissione del già esistente…», la confraternita ottenne l’altare vecchio e la balaustrache, nel 1800, fece collocare nella propria chiesa.
Fu questo l’ultimo lavoro di una certa importanza fatto eseguire dalla confraternita nella chiesa; in seguito ci si accontentò di opere di ordinaria amministrazione.